24 Aprile 2024

Piaceri della tavola e “cortigianerie” nella Siracusa antica

Diogene Laerzio in Vite dei filosofi, opera tradotta e commentata da Marcello Gigante, riferisce dei piaceri della tavola e di altre “cortigianerie” nella Siracusa antica.

Si parte da Archestrato, poeta e buongustaio gelese (per alcuni aretuseo) vissuto nel IV secolo a. C. Veniamo a conoscenza della sua figura di uomo di mondo, sempre in viaggio a caccia di stuzzicanti ricette e ghiottonerie a base di pesce e salamoie. La sua Hedypatheia cioè Gastronomia, letteralmente Poema del Buongustaio, insieme a una serie di consigli culinari rivolti agli amici gaudenti, svelano moltissime curiosità sulla “dolce vita” dei nostri antenati. Non solo ricette tipiche mediterranee ma anche regole di comportamento che non vanno intese come capricci di cortigiani bensì come veri e propri suggerimenti per gli habitué dei banchetti del tempo. Il tutto scritto in versi, per cui Archestrato potrebbe vantare il primato di precursore della poesia culinaria.

Nella fattispecie lo chef della Magna Grecia raccomandava all’amico Mosco il pane dei Fenici o dei Lidi, sottolineando poi: “niente formaggio, non facciamo assurdità! Semplicemente, mettilo in foglie di fico, con dolcezza, e legalo in punta con un laccio; quindi immergilo in cenere calda, e concentrati sul tempo coscienziosamente, finché sia cotto e non bruciato”. Piuttosto all’amico Cleandro consigliava “di procacciarsi una cavalla dalla Tessaglia, una moglie da Sparta, e uomini che bevono dalla chiara fonte d’Aretusa”. Altri suggerimenti? Certo: “In Rodi si trova del pescecane, o squalo. Persino se tu debba morire per averlo, se essi non vogliono vendertelo, prendilo con la forza. I Siracusani lo chiamano cangrasso”. C’erano altre indicazioni, poi, nel libro di Archestrato, che indussero il filosofo Crisippo a condannare certi “potenti stimolanti d’amore e di rapporto sessuale”, visto che “le giovani schiave erano pratiche di tali atti e di tali situazioni, e dedite a praticar tali cose”. Di fatto, spesso e volentieri i banchetti nelle corti della Magna Grecia potevano trasformarsi in vere e proprie orge.

Diogene Laerzio

Ancora, in merito agli sfarzi dei costumi e degli arredamenti, Diogene Laerzio si sbottona sulla vita dei Dionisio, padre e figlio, entrambi tiranni di Siracusa. Pare che i loro fasti fossero allietati da danze, canti e soprattutto da spettacoli di artisti girovaghi. In particolare della vita del più giovane dei regnanti, si parla in riferimento ai giorni del suo esilio a Corinto: “Colui che poc’anzi era tiranno di Sicilia, adesso passava il suo tempo conversando con un pescivendolo o seduto nella bottega d’un profumiere; beveva vino annacquato nelle bettole, o litigava sulla pubblica via con una di quelle donne che traggono lucro dalla propria bellezza”.

Ma ritornando ai consigli culinari dei nostri padri, scopriamo che a Siracusa, sempre nel IV secolo a. C., oltre ad Archestrato, ci fossero altri due intenditori di gastronomia, chiamati entrambi Eraclide. Pare che la loro specialità fossero le uova di pavone, superiori per qualità a quelle d’oca e di gallina; ma anche i dolci di sesamo e miele, a forma di vulva (i cosiddetti mylloi), che venivano dedicati alle dee Demetra e Persefone.

Infine, tra tanti festaioli, salta fuori una figura alternativa, quella del filosofo Monimo di Siracusa, allievo di Diogene di Sinope. Secondo quanto riporta Laerzio nelle Vite, il pensatore siracusano “fu al servizio di un banchiere di Corinto”, dove, tra una conversazione e l’altra, apprese la scelta di vita del grande cinico, essenziale e priva di ogni comodità. “Allora Monimo – racconta Laerzio – si finse pazzo, gettò via le monete e tutto il denaro che era sulla tavola del banchiere, finché il padrone lo licenziò”. Da lì in poi spese la sua vita contro ogni forma di gloria, in cerca solo della verità.

Daniela Frisone

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