27 Luglio 2024

Il primo poetar in italiano antico di Nina Siciliana

Una donna e una poetessa, Nina Siciliana. Così ebbe il nome colei che compose per prima versi in volgare nella Sicilia di Federico II di Svevia. A dirla tutta l’appellativo con cui era conosciuta non era uno solo, qualcun altro la chiamava Monna Nina, Nina da Messina, Nina del Dante, appellativi che raccontano del mistero che ancora oggi avvolge la sua figura. Non sappiamo se la fantomatica Nina del XIII secolo sia stata la prima a poetare in italiano antico o debba spartire il suo primato con la fiorentina Compiuta Donzella; a differenza di altre poetesse del tempo, di entrambe restano degli scritti che attestano la loro arte e danno modo agli studiosi di comprendere meglio chi erano le letterate dell’Italia medievale. Poche, aristocratiche, colte e conoscitrici di quelle trobairitz che in Occitania componevano versi a corte.

Di Nina si è detto tanto, che nacque intorno alla seconda metà del Duecento in Sicilia: qualcuno la vede a Palermo, all’interno della corte federiciana, in cui era possibile venire a contatto con i maggiori intellettuali del Mediterraneo, con i più grandi rappresentanti della poesia trobadorica e soprattutto con la scuola poetica siciliana che fu culla della lingua e della letteratura italiana; qualcun altro, invece, la immagina nell’entourage letterario peloritano che faceva capo a poeti del calibro di Guido e Oddo delle Colonne, da qui il nome di Nina da Messina.

Piuttosto ci fu chi la chiamò Nina del Dante con riferimento alla presunta corrispondenza con il poeta toscano Dante da Maiano che, invaghitosi del suo modo di verseggiare, le dedicò una lirica d’amore. Ne citiamo un passo: La lode e ‘l pregio e ‘l senno e la valenza/ ch’aggio sovente audito nominare, gentil mia donna, di vostra plagenza/ m’han fatto coralmente ennamorare, e miso tutto in vostra conoscenza/ di guisa tal, che già considerare/ non degno mai che far vostra voglienza: sì m’ha distretto Amor di voi amare.

La nostra Nina rispose all’appello e lo fece con una femminilità allora misconosciuta, lo fece audacemente, ponendo la sua figura in primo piano a dispetto di un modello sociale e artistico che vedeva la donna come creatura angelica da contemplare e adulare, e dimostrando la sua bravura anche grazie all’uso di un acrostico nel sonetto di risposta al suo amato. Eccone uno stralcio: Qual sete voi, si cara proferenza, Che fate a me senza voi mostrare? Molto m’agenzeria vostra parvenza, Perché meo cor podesse dichiarare. Vostro mandato aggrada a mia intenza; In gioja mi conteria d’udir nomare/ Lo vostro nome, che fa proferenza/ D’essere sottoposto a me innorare.

La corrispondenza tra i due innamorati fu posta in una raccolta del 1527. Di Nina ci giungono altri versi e, tra chi screditò e chi riconobbe la sua figura, oggi rimane l’eco straordinaria di Foscolo che ne parlò come di una novella Saffo, di De Sanctis che ne elogiò la raffinatezza linguistica e di Mariannina Coffa che la immortalò nel Parnaso siciliano.

Daniela Frisone

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