19 Aprile 2024

Sebastiano Carta, un saltimbanco sulla piazza e il senso di un’arte totale

Sebastiano Carta a Roma (anni ’30)

“Istintivamente palpando tra le carte trassi il manoscritto del ventenne Sebastiano Carta, la cui figura fisica ossuta e scattante in alto agitava un’ispirata testa scapigliata”. Così Filippo Tommaso Marinetti, durante una traversata in piroscafo per l’Africa, ricordava il giovane siciliano incontrato a Roma. Erano gli anni Trenta, anni ruggenti, anni in cui la capitale ospitava spettacoli teatrali all’insegna della modernità, delle avanguardie, del futurismo in particolare, che spesso potevano tradursi in scatenati incontri di giovani artisti e studenti che cercavano nuove forme di comunicazione.

A quel tempo Sebastiano Carta era poeta e pittore, o tutt’e due insieme, poiché abbracciava il senso di un’arte totale secondo i dettami della scuola futurista. Marinetti aveva riconosciuto in lui una certa rabbia adolescenziale e forse un pizzico di quella Sicilia che immaginava quale straordinaria fucina di talenti giovanili.

La tavola parolibera di Carta-Favalli

Di fatto Carta era nato a Priolo nel 1913 e, ancora bambino, aveva lasciato quella spiaggia per emigrare con la famiglia a Roma. Dell’Isola piena di “zàgare al lampo dell’ulivo” avrebbe raccontato poi in Canto largo. Libro primo del 1955; così la nostalgia, il senso di appartenenza a qualcosa di non realmente vissuto, e alla fine riscoperto solo dopo un viaggio a Bagheria, sarebbero arrivati con la maturità (Libro Cortese, 1971). Piuttosto, fin da quando era giovane e ribelle, Carta concepì l’arte, e nello specifico la poesia, come un ponte tra l’artista e la gente comune.

In particolare il 1936 fu per lui l’anno di una grande scommessa: Sebastiano apparteneva al quel Gruppo Futurista Romano, che nel 1933 al Bragaglia Fuori Commercio aveva esposto una serie di tavole parolibere, in pratica dei piccoli poemi che esploravano i fogli attraverso immagini atte a evocarne il significato. Dare il senso immediato di un verso, ecco dove andava a liberarsi l’idea artistica dei futuristi della capitale. Ed ecco perché, tra la pubblicazione di una raccolta lirica e l’altra (Le Case del 1935, Campo Mobile e Nostro Passo Quotidiano del 1936), Carta mise a punto il “Manifesto della poesia murale e di piazza”.

Carta negli anni ’70

In realtà la sua fu solo una proposta, poco più che un’intuizione, così come si legge in una sua lettera inviata presumibilmente nel 1936 ad Augusto Favalli, uno dei maggiori animatori del Gruppo: “Convinti che l’intimità in arte sia un vizio, convinti che i problemi che oggi ci assediano lo spirito procedono da un moto di assestamento della materia, mobilitando per opera di collaborazione poeti pittori scultori musicisti architetti e operai, portiamo le mobili tavole della poesia ad elemento di piazza a vera e propria sensazione-sparo”. Carta dava anche qualche dritta sulla misura delle tavole, sui nomi dei poeti e dei pittori partecipanti, sullo schema delle collaborazioni. Ma soprattutto affermava che l’opera di risveglio delle coscienze doveva partire dal luogo più importante della città: la piazza. Il punto d’incontro e socializzazione della massa per eccellenza, nel progetto delle “mobili tavole della poesia”, poteva diventare il posto in cui, attraverso il movimento dei poemi-affiches e l’immediatezza del loro messaggio, si sarebbero confrontati tre mondi: l’artista, la poesia amplificata dall’incontro con diversi materiali e il popolo. Un’idea straordinaria, che pare non abbia ottenuto gli effetti sperati. Della collaborazione tra Favalli e Carta rimane però una tavola parolibera dal titolo Un saltimbanco sulla piazza, un pezzo unico che racconta del colloquio artistico tra le due giovani menti. 

Daniela Frisone

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