29 Marzo 2024

Pickwick, il quindicinale catanese che ruppe i confini con il nord

Centodieci anni fa nasceva “Lacerba”. Il foglio di Giovanni Papini e Ardengo Soffici emetteva il primo vagito nel capodanno del 1913 ed era linfa nuova per i poeti combattenti dell’epoca. Si infrangevano le strutture del passato, si dava il via al frammentismo, al diario, all’aforisma. Un momento magico attraversava l’Italia con un grido di strafottenza dotta, con una voglia spregiudicata di fare arte in modo del tutto innovativo. Già nel nome Lacerba si riconosceva come “foglio stonato, urtante, spiacevole e personale”.

Così, un paio di anni dopo – un ritardo tipico meridionale – qualcuno in Sicilia raccolse la sfida. Si fece largo a Catania “Pickwick”. I fondatori, Giovanni Centorbi, Antonio Bruno, Mauro Ittar e un fantomatico Giacomo D’Artemi, misero in piedi un foglio dai toni originali. Non un vero e proprio foglio d’assalto, non esattamente futurista, Pickwick guardò alla letteratura d’oltralpe, a Baudelaire, Rimbaud, Laforgue e Mallarmè.

E in questa, come in altre movenze, il quindicinale catanese si macchiò di lacerbismo. Fu Antonio Aniante, qualche tempo dopo, a scrivere: «I suoi redattori innamorati del cenacolo fiorentino delle Giubbe rosse Papini e compagni, vollero rinnovare a Catania i fasti di Lacerba. Pickwick esteriormente, rassomigliava molto alla rivista fiorentina. Centorbi e i suoi amici vedevano di buon occhio il movimento spazzola della polvere classica, in piena vita a Firenze, per mano di Papini. E senza voler imitare quelli di lassù, i quattro cavalieri dell’apocalisse catanese, stampavano a Catania l’edizione oltre-stretto di Lacerba, dal titolo Pickwick».

Antonio Bruno

Nel 1915 Soffici, sulle pagine del periodico fiorentino, la attenzionò ai lettori intelligenti; altrettanto fece De Robertis, che su “La Voce” dello stesso anno la indicò come “la sola rivista degna di considerazione che sia uscita in Italia in questi ultimi tempi, tra tutte le altre che disonorano la letteratura e l’arte”. Entrambi notarono l’evidente stampo lacerbiano. Ecco perché, parecchi anni dopo, l’ex pickwickiano Centorbi confessò: “Le otto pagine ripetevano deliberatamente e quasi specchiavano il formato, lo stile tipografico e persino il color giallo antico di Lacerba, la rivista fiorentina di Soffici, Papini e Palazzeschi”. A conti fatti, già dal primo numero, il periodico di Bruno e compagni sembrava fare sul serio: “Diffondete Pickwick l’unico giornale che lasci dormire in pace Mario Rapisardi e che rinunzi ad occuparsi dello annoso problema meridionale”.

Ardengo Soffici

Abbandonare i padri ottocenteschi e scavalcare i limiti del provincialismo, ecco la mission dei pickwickiani. Ne uscirono cinque in tutto, numeri dal marzo al maggio 1915. Sulla falsa riga di Lacerba, la rivista catanese si avvalse di un titolo impronunciabile. Se la ridevano, Bruno Centorbi e Ittar, a pensare che i catanesi scambiassero il nome del circolo dickensiano con un banale picnic. Faceva odiens, cartaceo ovviamente. Il culto di D’Annunzio veniva crocifisso e con lui tutta la letteratura romantica. Pickwick apriva le porte a un futurismo moderato. I toni simbolisti lo ponevano al centro di una dimensione presentista-modernista, tipica delle riviste del primo ventennio del secolo.

In realtà il tono scanzonato degli animatori di Pickwick celava un atteggiamento aristocratico, un ribellismo contro mentalità e costume correnti, un piglio germanofilo. Quest’ultimo fu aspramente criticato dai lacerbiani: “Nel primo numero leggiamo un articolo, Deutschland di Giovanni Centorbi in lode alla Germania. È inutile dire che l’assunto ci ripugna, ma è scritto con talento. F.T. Marinetti avrebbe potuto sottoscriverlo se gli fosse piaciuto di assumere un’attitudine franca davanti al conflitto europeo”. Ne era comunque valsa la pena. Soffici, in punta di penna, aveva dato credito ai catanesi. Antonio Bruno e i suoi Balocchi pickwickiani potevano davvero dirsi figli del Giornale di bordo di Lacerba. Nel 1915, tra nord e sud, non c’era alcun confine: all’Arlecchino di Firenze faceva eco il Pierrot di Catania.                                                                                         

Daniela Frisone

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